Il fascino perverso del retrocomputing: perché torniamo ai computer del passato

C’è qualcosa di profondamente inquietante ma anche irresistibilmente seducente nel retrocomputing. Non si tratta solo di collezionismo nerd, né di semplice nostalgia per i bei tempi andati. No, il retrocomputing è una dichiarazione di “guerra” al presente, un atto quasi sovversivo che grida a gran voce: il progresso non è sempre un miglioramento.
In un mondo dominato da smartphone onniscienti, intelligenze artificiali melliflue, occhiali intelligenti e aggiornamenti continui che trasformano la tecnologia in una corsa senza traguardo, sempre più persone scelgono di guardare indietro. Letteralmente. Tornano ai Commodore 64, agli Amiga 500, agli MS-DOS, ai floppy da 5 pollici e un quarto. E lo fanno con passione, dedizione, quasi con religiosità. Ma perché?
Per rispondere, bisogna sporcarsi le mani con un po’ di storia. Gli anni Ottanta sono stati una fucina creativa irripetibile per l’informatica. All’epoca, i computer non erano oggetti banali e invisibili come oggi. Erano strane macchine rumorose, spesso capricciose, ma anche profondamente affascinanti. Chi ha mai sentito il suono di un modem a 56k che si connette al web, non lo dimenticherà mai. Era come ascoltare un rito arcano. Ogni computer aveva una sua personalità: il Commodore 64 con la sua grafica pixelata e il SID, un chip audio che sembrava venire dal futuro. L’Amiga 500, con la sua interfaccia grafica e i suoi giochi incredibilmente avanzati. Gli Apple II, spartani ma rivoluzionari. L’MSX, che cercava di imporre uno standard universale, e poi tutti quei cloni IBM che gettarono le basi di ciò che oggi chiamiamo semplicemente “PC”.
In quegli anni, usare un computer non era una passeggiata. Non esisteva il concetto di plug-and-play. Ogni periferica andava installata con fatica, spesso leggendo manuali in inglese tecnico su carta ingiallita. Il sistema operativo non era un’entità invisibile ma qualcosa che si caricava con comandi scritti a mano, spesso dopo minuti di attesa e rumori meccanici. Era un’epoca in cui bisognava sapere come funzionava un computer per usarlo. Il che, per certi versi, significava essere in controllo.
Oggi, invece, siamo spettatori. I nostri smartphone fanno tutto da soli. I sistemi operativi si aggiornano in background. Il software è progettato per nasconderci ogni dettaglio tecnico, per impedirci – letteralmente – di capire cosa stia succedendo sotto il cofano. È comodo, certo. Ma è anche alienante. E il retrocomputing, in questo contesto, diventa una forma di resistenza. Di ribellione.
Chi pratica il retrocomputing non è solo un nostalgico. È un hacker nel senso più nobile del termine. È qualcuno che vuole capire, esplorare, smontare. Non è raro trovare appassionati che riparano vecchi floppy drive con pezzi stampati in 3D, o che scrivono nuove applicazioni per macchine uscite di produzione trent’anni fa. C’è chi costruisce interfacce moderne per collegare un Commodore 64 a Internet, chi realizza nuove cartucce per il VIC-20, chi crea musica chiptune utilizzando un Game Boy. È una comunità vivace, creativa, che ha fatto del passato un campo da gioco senza tempo.
Ma torniamo alla domanda iniziale: perché? Perché preferire una macchina del 1984 a un MacBook del 2025?
Una risposta banale è che i computer vecchi sono “più semplici”. Ma non è esattamente vero. Sono più limitati, sì. Ma questa limitazione è una benedizione, non un difetto. Le restrizioni imposte dall’hardware dell’epoca costringevano i programmatori a essere creativi, a spremere ogni ciclo di CPU, ogni byte di RAM. Non c’era spazio per l’inefficienza. Ed è proprio in questa sfida che molti trovano il piacere. Scrivere un videogioco in linguaggio macchina per il processore 6502 non è solo un esercizio di stile, è un atto di amore verso la logica, la precisione, l’ingegno.
Poi c’è la questione del possesso. I computer moderni non ci appartengono più davvero. Non possiamo aprirli, modificarli, reinstallarli a nostro piacimento. I vincoli imposti da software proprietari, firmware blindati, sistemi cloud e DRM fanno sì che siamo sempre più ospiti nella nostra stessa macchina. Con un vecchio PC XT o un Apple II, invece, si ha il pieno controllo. Non ci sono spyware, non ci sono notifiche, non ci sono aggiornamenti obbligatori. È solo tu e la macchina. Un dialogo diretto. Brutale, ma autentico. C’è una scheda PCB sulla quale puoi sfilare RAM e CPU dagli zoccoli (oppure se non li hanno puoi montarli tu), si può in certi casi implementare la RAM… insomma ci puoi “smanettare”.
E poi c’è la nostalgia, certo. Ma attenzione: la nostalgia non è solo un sentimento romantico. È anche uno strumento cognitivo. Ricordare com’erano le cose ci aiuta a valutare meglio come sono oggi (e questo non vale solo per i computer). Riscoprire un vecchio BASIC può insegnarci quanto abbiamo perso in termini di accessibilità della programmazione. Rigiocare a un titolo per Amiga ci fa riflettere su come il design dei giochi si sia evoluto – o involuto – nel tempo. Smontare un vecchio Sinclair ZX Spectrum può essere più istruttivo che leggere dieci manuali di architettura dei sistemi moderni.
Il retrocomputing, insomma, è un atto di memoria attiva. Non si tratta di rifugiarsi nel passato, ma di utilizzarlo come strumento critico per affrontare il presente. E in un’epoca in cui tutto sembra fluido, immateriale, effimero, toccare con mano un circuito stampato, saldare un componente, sentire il click di una tastiera meccanica da 1985, ha un valore quasi terapeutico. È un ritorno al tangibile. All’essenziale.
Naturalmente, c’è anche chi guarda a questa passione con un certo scetticismo. “Perché perdere tempo con una macchina che non può nemmeno navigare su Internet?” è una domanda comune. Ma è una domanda che tradisce una visione profondamente utilitaristica della tecnologia. Come se l’unico valore di un computer fosse quello di permetterci di fare qualcosa in modo più veloce. In realtà, la tecnologia può (e forse deve) essere anche fine a sé stessa. Può essere arte, gioco, esplorazione.
Il paradosso è che mentre il mondo corre verso l’iperconnessione, l’intelligenza artificiale e la realtà aumentata, c’è una crescente frangia di persone che trova soddisfazione nel ricollegare un vecchio floppy drive, nel sentire l’odore della plastica vecchia, nel riscrivere il codice di un gioco per Atari 2600. E questo non è un movimento marginale. Eventi come la VCF (Vintage Computer Festival) attirano migliaia di partecipanti in tutto il mondo. Esistono forum, podcast, riviste dedicate solo al retrocomputing. E le quotazioni su eBay dei computer vintage stanno salendo vertiginosamente.
Qualcuno potrebbe pensare che sia una moda passeggera. Ma non è così. Perché il retrocomputing non riguarda solo il passato. Riguarda, piuttosto, il nostro rapporto con la tecnologia. La nostra voglia di comprenderla, di dominarla, di sentirla nostra. In un mondo in cui i dispositivi sono sempre più chiusi, opachi e ingestibili, guardare indietro diventa un modo per guardare avanti con maggiore consapevolezza. Il retrocomputing non è solo un hobby. È una forma di resistenza culturale. È una dichiarazione: non abbiamo dimenticato. Non abbiamo dimenticato com’era lavorare con i limiti. Non abbiamo dimenticato il piacere della scoperta, dell’invenzione, della manualità. Non abbiamo dimenticato che la tecnologia può anche essere bella, divertente, creativa, libera.
E soprattutto, non abbiamo dimenticato che il futuro non è scritto solo da chi guarda avanti, ma anche da chi ha il coraggio di voltarsi indietro e chiedersi: dove abbiamo perso la strada? Forse, in mezzo a tutti quei pixel, quei bit e quei beep, c’è ancora una lezione che i computer degli anni Ottanta possono insegnarci. Basta solo avere il coraggio – o la follia – di accenderli di nuovo.
Io che ho scritto questo articolo (e non ti dirò chi sono) aspetto ancora il Commodore 64 di seconda mano che avrei voluto verso la fine degli anni ’80 e che non ho avuto… è andata cosi…