Una volta, entrare in casa di qualcuno era come sfogliare un libro. Le stanze raccontavano storie, e i mobili erano i capitoli più belli. C’era il settimino della nonna, sette cassetti perfettamente allineati, uno per ogni peccato capitale — o per ogni calzino spaiato, a seconda delle priorità familiari. C’erano i mobili in vero legno massello, scuri, lucidi, pesanti come un senso di colpa cattolico. Erano mobili che non si spostavano, si ereditavano. Roba che ti seppelliva o ti sopravviveva.
Oggi? Oggi un mobile spesso ti arriva in una scatola piatta, con dentro 48 viti, 3 pezzi in truciolato, e una chiave a brugola che sembra un’arma da tortura medievale in miniatura. Lo monti, lo guardi, ti congratuli con te stesso. Poi, dopo sei mesi, comincia a ballare il tip-tap ogni volta che passi vicino. E dopo un anno… addio. Si sfalda con la stessa dignità di un castello di sabbia sotto la pioggia.
Siamo passati dal mobile come compagno di vita al mobile come oggetto usa e getta, figlio di una modernità frettolosa, leggera, e soprattutto impersonale. La colpa? Non solo di alcuni brand, ovviamente. No, il problema è più profondo. Come scriveva Remo Bodei nel suo libro La vita delle cose, gli oggetti non sono semplici strumenti: sono prolungamenti della nostra identità, contenitori di ricordi, emozioni, esperienze. Quando ci circondiamo di cose anonime, facilmente sostituibili, stiamo anche accettando l’idea che tutto sia temporaneo, che nulla abbia davvero valore. Neppure noi.
Torniamo allora ai cari vecchi mobili di una volta. Prendiamo il soggiorno, per esempio. C’era il mobile a parete, costruito come un fortino. Vero legno. Ciliegio, noce, rovere. Tre metri di imponenza con vetrinette, cassetti, ante che si chiudevano con quel suono solenne, pieno, rassicurante. Una parete attrezzata che non era “design”, ma personalità scolpita. Dentro c’era tutto: dal servizio buono di porcellana regalato al matrimonio nel ’72, ai VHS di “Sapore di mare”, passando per le bomboniere dei battesimi di cugini dimenticati. E il bello? Ogni cosa aveva il suo posto. E ci stava. Senza “decluttering”, senza Marie Kondo, senza sensi di colpa.
Oggi, invece, abbiamo scaffalature “minimal”, pensate per non contenere nulla. Esteticamente pure carine, ma totalmente inutili. Vuote dentro. Come tante frasi motivazionali su Instagram.
E i settimini? Dove sono finiti i settimini? Quell’elegante colonna di legno con i suoi sette cassetti era una piccola architettura domestica. Era il banco di lavoro segreto delle nonne, la cassaforte degli oggetti “che non si buttano mai”. Oggi un settimino te lo vendono in MDF laccato lucido, bianco, con i cassetti che si incastrano già al secondo utilizzo. Lo monti e sai già che finirà storto. E lo accetti. Lo accetti perché sei stanco, perché “che vuoi di più per 59,90 euro?”, perché ti sei ormai rassegnato all’idea che tutto duri poco. Anche il tuo armadio.
La tragedia, però, è culturale. La smaterializzazione del mobile è la spia di una smaterializzazione più vasta, quella dell’esperienza. Non vogliamo più oggetti che ci accompagnano per trent’anni. Vogliamo cose che cambino insieme alle mode, che si adattino ai nostri traslochi seriali, che siano leggere, economiche, dimenticabili. Un tempo si arredava casa una volta sola, e quei mobili li conoscevi meglio del tuo partner. Oggi cambi tavolino da caffè più spesso che mutande. E se un giorno cade, non lo ripari. Lo butti. Il colosso dell’e-commerce (di chi sto parlando?) te ne porta un altro domani.
Eppure, quando entri in una casa “vera”, ancora adesso, senti la differenza. Lo riconosci subito un mobile buono. Non solo dal peso o dall’odore del legno, ma da quella strana sensazione di continuità che porta con sé. È una specie di radicamento silenzioso. Come se dicesse: “Io sono qui. Da tempo. E qui resterò”. È il contrario dell’arredamento fast-food che ci propinano oggi.
Bodei ci invitava a riconoscere negli oggetti il potere di custodire pezzi della nostra vita. E cosa può farlo meglio di un mobile che ha vissuto più inverni di te? Un mobile che ha visto crescere i tuoi figli, che ha retto i tuoi piatti e i tuoi nervi, che ha ascoltato i tuoi silenzi più di quanto tu abbia mai ascoltato te stesso?
Il vero legno parla. Creak. Creak. Ti dice: “Ehi, ricordi quella volta che ci hai versato sopra il vino rosso durante la cena con i suoceri?”. Il truciolato, invece, si limita a gonfiarsi d’acqua e a morire silenziosamente, come un pesce rosso nella vaschetta del bagno.
Siamo davvero disposti a sacrificare tutto questo per un’estetica “moderna” che sembra uscita da una sala d’attesa di uno studio dentistico? Forse dovremmo rallentare. Riprenderci il tempo, lo spazio, e la dignità del mobile fatto bene. Tornare a voler bene alle cose, e a farcele durare. Smetterla di vivere in case che sembrano scenografie Ikea temporanee. Riempirle invece di mobili con l’anima — magari un po’ ingombranti, un po’ vecchiotti, ma veri. Come le storie che vogliamo ricordare.
E se proprio non puoi permetterti un mobile d’altri tempi, adotta un settimino usato. Portalo a casa. Fallo tuo. Guardalo negli occhi (o nei cassetti) e digli: “Io ti rispetto. Tu non sei solo legno. Tu sei storia”.
Magari ti risponderà: creak.